Purtroppo non possiamo tornare indietro di 200 anni per chiedere a Beethoven a cosa pensasse quando ha composto, a 30 anni, il primo movimento della Sonata n. 14, op.27 n.2, volgarmente detto “Sonata Al Chiaro di Luna“. Come spesso accade, questo non fu un nome dato da lui, che probabilmente al chiaro di luna non ci pensava proprio quando lo scrisse, ma successivamente dal critico d’arte Ludwig Rellstab, al quale questo movimento faceva pensare ad una barchetta che rema, silenziosamente, di notte, sullo specchio di un lago circondato da alte e scure montagne, con la luna piena a creare un leggero bagliore.

In realtà, come sostengono concertisti di livello mondiale, tra i quali spicca Daniel Barenboim, la cadenza di questa composizione fa pensare ad una marcia funebre, in quanto il tema principale ha la stessa metrica di altre marce funebri conosciute, come ad esempio quella di Frederic Chopin (andate al minuto 13.54 della versione del grande Vladimir Ashkenazy, o quella di Felix Mendelssohn, che hanno lo stesso disegno ritmico, ma anche al Don Giovanni di Mozart, quando viene ucciso il commendatore. Una marcia, dunque, altro che chiaro di luna: una marcia funebre.

Ma allora, se pensiamo ad una marcia funebre, invece che alla barchetta sul lago pensiamo a gente che cammina dietro un carro che trasporta qualcuno che abbiamo amato, e che ci ha abbandonato. Data l’epoca, un carro di legno, con grandi ruote di legno, che percorre strade certamente non lisce come il marmo, ma dissestate, passando sopra a buche, arrancando in salita, tentando di frenare discese troppo precipitose, talvolta impantanandosi, procedendo a strattoni, con appoggi grevi e pesanti quando ritrova un punto di equilibrio dopo essersi inclinato troppo, mentre un cavallo stanco lo traina, fino al momento in cui il triste corteo, dopo momenti di sconforto e improvvisi, acuti lamenti che tentano di liberarsi da quel senso di ineluttabile non-ritorno che è la morte, non giunge a destinazione, magari vicino ad una fossa appena scavata, rallentando fino a spegnersi, così come il cuore cessa di battere.

È così che mi immagino questa composizione, ed è così che mi dà più emozione suonarla. Vero è che le indicazioni comunemente accettate per l’esecuzione di questo movimento richiedono al contrario di limitare ogni cadenza fino ad eseguire il brano con una estrema omogeneità metronomica e timbrica, ad evocare l’atmosfera spettrale, lunare appunto, che onora il suo soprannome (“Al Chiaro di Luna“), ed è così che viene quasi sempre eseguita.

Consapevole di operare una scelta e di assecondare una visione del tutto personali, non avendo velleità pianistiche che vadano oltre ad un livello dilettantistico, preferisco assecondare la mia natura e vagare nelle mie visioni interiori, che in fondo l’arte è pur sempre una questione intima, ed uno spartito non è che un insieme di macchioline su un foglio che – a differenza di una scultura – devono essere riportate alla vita, ogni volta, ancora ed ancora, da chi tenta di ricostruire le emozioni e i sentimenti che vogliono rappresentare.

La musica è talmente dipendente da chi la esegue, a differenza di altre forme artistiche, che talvolta ci si spinge perfino a dire che l’interprete si fa egli stesso autore, o coautore, di chi ha originariamente composto il brano, in quanto si tratta sempre di ricostruire, riportandolo alla vita, qualcosa che non esiste più. Siccome osservare qualcosa, da Heisenberg in poi, significa in qualche modo anche cambiarlo, questa sensazione di essere una scintilla di vita capace di ricreare la vita e le sue manifestazioni, in quel preciso istante, ogni volta che ci si sieda al pianoforte, è un’emozione superiore che colloca ognuno di noi al suo posto dell’universo. Come da qualche parte, nello spazio profondo, esiste un Quasar che emette radiazioni, messaggi invisibili che attraversano il cosmo in lungo e in largo, così ogni volta che suoniamo un brano composto secoli fa diventiamo noi stessi l’origine, la sorgente di una memoria naturale che irradia armonie, a partire da quelle precise coordinate che corrispondono al nostro strumento musicale, e arricchiscono l’universo colorandolo di emozioni e sentimenti che, una volta provati, sono destinati ad irradiarsi per sempre nello spazio entro il quale la nostra vita vibra e si consuma.

Come le stelle emettono luce, noi emettiamo emozioni: siamo neuroni che si accendono e ricreano la realtà, eterna, immortale, come le domande più profonde che la vita ci pone, generazione dopo generazione. Ogni volta che suoniamo qualcosa, facciamo tornare a vibrare l’universo sulle frequenze migliori che l’umanità abbia mai originato, lasciando una testimonianza capace di vagare per distanze impensabili e far risuonare costantemente un messaggio: “Siamo qui, esistiamo, e finché continueremo a pensare noi stessi non saremo soli, non moriremo mai”.

p.s. Beethoven dedicò la sonata alla contessa Giulietta Guicciardi, una sua allieva italiana poco più che adolescente di cui era innamorato e, pare, da cui era ricambiato, ma non la compose per lei, a cui in realtà voleva dedicare un Rondò che invece dovette andare in sorte alla contessa Lichnowsky. Quindi non pensava a lei, quando la compose: l’interpretazione del primo movimento come “marcia funebre” non è in contraddizione.