Si fa presto a dire Bach. Uno vede queste parrucche simili a quelle di certi giudici di altri secoli e sbadiglia. Ma è solo questa ossessione che abbiamo per il tempo, questa assurda convinzione che ciò che viene dopo sia necessariamente meglio, e ciò che viene prima sia noioso. In realtà le cose possono toccare vette eccelse e poi paralizzarsi nell’incapacità di andare oltre. Anzi, dopo la cresta dell’onda quasi sempre arriva l’avvallamento. E allora sono guai.

Quello che ha creato quest’uomo è un testamento insuperato, una cordigliera di montagne russe (si può dire “russe”?) dove le emozioni spalancano gli occhi e gridano una dopo l’altra, libere da ogni freno. Ma non lo puoi capire ascoltandolo: lo devi suonare. Ti ci devi scontrare, con quel garbuglio di note indecifrabile, con quella sfida per le dita, altrimenti non riesci a capirlo. È solo nel tentativo di dipanare il gomitolo che riesci a trovare il bandolo della matassa. Ogni spartito è un rompicapo cento volte più affascinante e avvincente del cubo di Rubik. Il modo in cui sapeva incastrare le melodie, farle rincorrere, il modo in cui tutte le note tornavano a posto dopo essersi girate intorno come i cani, avere pianto, avere riso, avere sofferto, essersi abbracciate e poi lasciate, avere vinto e avere perso, essersi rassegnate, avere sperato e poi essersi trovate là in fondo, poco prima della fine, per poi risalire sul primo vagoncino libero. Questo è Bach.

Ma Johann Sebastian Bach era anche un giovane ragazzo che, appena ventenne, si fece 400 km a piedi per andare a sentire di nascosto l’organista di Lubecca Dietrich Buxtehude. e se ne stette quattro mesi lì, nelle campate della chiesa senza mai salire nella “cantoria” per presentarsi, perché temeva che se il maestro se ne fosse accorto, allora avrebbe dissimulato i suoi segreti e lui non sarebbe riuscito a carpirli. Lo rivelò uno dei suoi figli. E quando tornò alla chiesa di San Bonifacio di Arnstadt, dove lavorava, venne sbattuto in prigione perché aveva chiesto una licenza per quattro settimane, ma era stato via quattro mesi! Ma poi, quando ricominciò a suonare l’organo, tutti i fortunati che poterono ascoltarlo restarono talmente ammaliati da essere quasi confusi.

Le quindici Invenzioni a due voci e le quindici Invenzioni a tre voci (queste ultime dette anche “Sinfonie”) non erano pensate per essere pubblicate. E infatti nessuno lo fece fino al 1801. Erano manuali di istruzioni pensati per insegnare ai suoi figli quello che lui aveva imparato. Alla Yale University di Newhaven, nel Connecticut, è conservato un frammento di manoscritto nel quale lo stesso Bach introduceva le due serie di composizioni. Ecco cosa scrisse:

Metodo efficace con cui si presenta in forma chiara agli appassionati del clavicembalo e soprattutto a coloro che sono desiderosi di apprendere, non soltanto come si suona correttamente a due voci, ma anche come si può arrivare, man mano che l’allievo progredisce, a far buon uso di tre voci obbligate e ottenere così non soltanto delle buone invenzioni, ma poterle pure bene eseguire e soprattutto acquistare l’arte del cantabile e il gusto della composizione.

Voleva che che tutti, a partire da suo figlio primogenito Wilhelm Friedemann, potessero imparare non solo a suonare, ma anche a scrivere. Ed era un maestro premuroso e amorevole. Fu lui a inventare il motto “Niente è impossibile”, che oggi campeggia su tutti gli spot pubblicitari (“impossibile is nothing”), e lo diceva agli allievi che credevano di non potercela fare. Diceva loro che non aveva mai visto niente che non fosse fattibile. E se non potevano venire a lezione perché avevano la febbre, andava a fare loro lezione a casa (oggi a casa se stai male non vengono neanche i medici). E non voleva sentir parlare di gratitudine: rispondeva che tutto quello che avevano raggiunto era soltanto merito loro. Chiedeva solo, in cambio, la promessa che un giorno avrebbero a loro volta insegnato quello che stavano imparando ad altri aspiranti musicisti che non traevano beneficio dal metodo di insegnamento di allora.

Si fa presto a dire Bach, ma Bach era innanzitutto un essere umano come me e come voi, un uomo che seppe compiere uno sforzo eccezionale per consegnare al futuro il codice che avrebbero poi usato tutti i musicisti che da lì in poi sarebbero nati e avrebbero consegnato al mondo tanti altri capolavori. Dopo avere studiato Bach, infatti, non si può non sentirlo risuonare perfino in Chopin, che durante i suoi viaggi della speranza nel tentativo (fallito) di guarire dalla tubercolosi, non si portava dietro altro se non il Clavicembalo ben temperato di Bach.

Da un mese e mezzo ho accettato la sfida di imparare l’Invenzione a tre voci numero tre, quella in re maggiore. Per chi non ci ha mai provato, si tratta di tre linee melodiche indipendenti, che potrebbero suonare anche da sole, ma che rincorrendosi e mescolandosi, come lunghe catene di dna autoavvolgenti, danno luogo al miracolo dell’armonia. Solo la mente di un genio poteva partorire un tale prodigio sonoro.

Nel video ve la faccio ascoltare. È una mediocre esecuzione, ma è l’esecuzione di un appassionato, meno che dilettante, che ama perdersi su queste vette sbalorditive e incantevoli, pura autentica magia dove i limiti umani possono prendere la rincorsa e, con un gigantesco balzo sfiorare, lassù in alto, i misteri dell’universo, e quindi accarezzare per pochi istanti la mente di Dio, prima di tornare alla loro condizione di laboriose e disperate creature.

Quel trampolino, quel propulsore alimentato dalla commovente ricerca di una soluzione alla nostra finitezza, ce lo ha costruito Bach. Ora, chi vuole usarlo per tuffarsi nell’infinito, prenda in mano lo spartito e scopra la combinazione che apre le porte del mistero.

Cominciate a suonare. A qualsiasi età. Niente è impossibile! Parola di Bach.