Nella prima puntata di questa breve STORIA DEL JAZZ, pensata per dare un’infarinatura e appassionare chi fosse a digiuno di questo genere musicale, abbiamo parlato delle gare di improvvisazione che i musicisti usavano fare ai tempi di Bach, e poi Beethoven, Liszt e così via. Oggi la musica classica si è cristallizzata e quello che generalmente fa un esecutore è tentare di restare il più possibile “fedele” alla volontà dell’autore, per quanto tale volontà sia ricostruibile, non esistendo infatti registrazioni dell’epoca con le quali confrontarsi. Quando qualcuno “sgarra”, il mondo si divide tra i suoi estimatori e i cosiddetti puristi, che lo considerano un eretico privo di attendibilità. Si pensi al grande Glenn Gould, stimato interprete di Bach, che ha diviso il mondo. Esiste addirittura una sua esecuzione del concerto di Bach n.1 in re minore, diretta da Bernstein, dove lo stesso grande direttore d’orchestra, pur accettando la sfida, sentì il bisogno di premettere all’uditorio che tuttavia lui non era d’accordo con quello stile esecutivo (ascoltate qui ciò che disse). Per stabilire la correttezza di una ricostruzione interpretativa, ci si affida ad esempio alle catene di insegnanti che, nel giro di pochissime generazioni, portano dagli allievi diretti dei grandi geni della musica (ad esempio Beethoven che aveva come allievo Carl Czerny e così via…), fino ai giorni nostri. Poi ci si affida agli scritti dell’epoca, alle velocità metronomiche (e anche su questo c’è qualcuno che si è impegnato in ricostruzioni storiche differenti) e in ultima analisi ad una lettura approfondita dello spartito che colga l’intima essenza musicale della musica da eseguire, e quindi anche del necessario stile esecutivo, e del tempo, necessari per trasformare quelle macchie di colore su un pezzo di carta in qualcosa che racconti emozioni e stati d’animo. Già, perché anche questo è molto peculiare: gli architetti lasciano palazzi, gli scultori lasciano statue, i pittori lasciano dipinti. Uno può dibattere su cosa comunicare l’autore, ma non c’è nessun dubbio su come sia fatta l’opera realizzata. I musicisti invece lasciano puntini di inchiostro su un foglio. La musica non esiste, se non quando viene eseguita. E quindi, siccome chi la esegue inevitabilmente non può che metterci del suo, anche se il meno possibile, ci si può spingere a dire che ogni esecuzione di un’opera musicale, in fondo, possa essere vista come scritta sia dall’autore originario, sia dall’esecutore che la riprota alla vita. Ad esempio, se suonata la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven, in quel preciso istante in cui il pianoforte che state suonando, diretto dalla vostra precisa intenzione e dalla vostra volontà, crea le sonorità, le frequenze che si irradiano nell’universo, come un’idea, un concetto, un impulso pari alle emissioni radio di una stella lontana, beh.. in quel preciso momento state eseguendo un pezzo scritto da Beethoven e… da voi. A quattro mani. State resuscitando un’emozione, state ricreando una dimensione interiore che era scomparsa insieme all’autore. Sedeuti su quello sgabello, i pianisti classici sono tutti un po’ dottor Frankenstein. Una chiave di lettura fiosoficamente intrigante. Pensateci la prossima volta che metterete le mani sulla tastiera. Potreste trovare in voi un’energia sconosciuta.

Tutto cambia quando arrivano le prime forme di registrazione musicale. I dischi potevano riprodurre quello che era stato suonato, o perlomeno dare un’impressione rispetto al come un brano era stato eseguito. Nel jazz, che affonda le sue radici nel blues, argomento di cui parleremo in questa puntata dalla STORIA DEL JAZZ, con Emanuele Sartoris, le registrazioni diventano quasi più importanti degli spartiti.

Emanuele vi racconterà come nasce il blues, come si evolve, partendo dalle fatiche degli schiavi che lavoravano nelle piantagioni, dai battiti di mani, senza strumenti musicali propri, fino ai grandi virtuosismi di Duke Ellington. Buon divertimento.